NR. 41 anno XXVIII DEL 25 NOVEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Raffaele Paganini e l’autobiografia
in punta di scarpette

L’artista preferisce definire lo spettacolo “Ho appena 50 anni… e ballo il Sirtaki” la storia della danza vissuta attraverso le sue esperienze

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Raffaele Paganini e l’autobiografia in punta di sc

Domenica 14 febbraio, il teatro di Lonigo ha ospitato lo spettacolo di danza moderna "Ho appena 50 anni... e ballo il Sirtaki" con Raffaele Paganini. Uno spettacolo raffinato e coinvolgente suddiviso in 4 quadri: Mare, Opera, Metropoli, Sirtaki.  Il celebre danzatore ha coinvolto il pubblico senza rubare la scena ai giovani artisti che lo accompagnavano, rendendoli i veri protagonisti. Lo abbiamo incontrato.

Questo è uno spettacolo in cui si racconta la sua vita. Spesso i personaggi pubblici usano la parola scritta per narrare la propria autobiografia. Quali sono gli aspetti della sua personalità e della sua storia che in un libro non avrebbe potuto descrivere?

Raffaele Paganini:  «Mi avevano proposto di fare un libro ma la danza vive di emozioni difficili da tramutare in parola scritta. Questa non è la mia autobiografia ma la storia della danza vissuta attraverso le mie esperienze. Io ho avuto la fortuna di vivere un periodo magnifico della danza, in cui c'erano davvero i più grandi come Nureyev, Barishnikov, Vasiliev, la Maksimova, la Makarova o la Plitseskaia».

Ci racconti di Nureyev.

«Abbiamo lavorato molto insieme ed è stato uno dei primi a scoprirmi: mi scelse come suo sostituto per il ‘Marco Spada' visto che lui era in Italia solo per poche date e per me fu un'emozione grandissima. Era davvero un periodo magico per la danza, succedeva tutto. Ho lavorato anche con Béjart: lui mi disse che i balletti più belli li aveva creati sulla spiaggia, ispirandosi al mare».

Lei è notissimo come danzatore classico, poi ha esplorato e approfondito anche altri generi come il musical o le esperienze televisive.  Come mai continua ad esistere un pregiudizio, da parte del pubblico, per cui un artista definito "puro" e d'élite si svaluta nel momento in cui si mette in gioco in televisione ?

«Io non ho mai abbandonato il classico, l'ho solo portato in tv, nel '82 con ‘Fantastico2', insieme a Oriella Dorella. Lei era étoile alla Scala, io all'Opera di Roma.Col pubblico riesci a creare un dialogo attraverso la tua disciplina e si può ammorbidirlo quando vede che c'è lo stesso professionalità, bravura e amore per quello che fai. Chi ti massacra sono gli addetti ai lavori e i giornalisti».

C'è una grossa differenza tra il linguaggio televisivo e quello teatrale: il campo visivo in televisione è estremamente ristretto e basta un piccolo gesto, come per esempio toccarsi il viso, per risultare ridondanti. In teatro invece se non si è enfatici, da lontano non si coglie il significato del gesto. Un danzatore come può sfruttare il linguaggio televisivo per esprimersi?

«Collaboriamo moltissimo coi registi, che sono sempre molto disponibili: non serve fare un primo piano su un salto, per esempio».

Al di là dei talent come "Amici" o "Academy", ai quali lei stesso ha partecipato e che possono essere dei format sviluppati in modo forse un po' discutibile, perché in tv, secondo lei, non ci sono più programmi come "Maratona d'Estate", che sicuramente è stato il programma più utile per spiegare seriamente la danza al pubblico?

«Tutti i format sono discutibili, tutti. La tv non crea programmi a favore della danza o della musica ma a favore del pubblico e degli inserzionisti. Se alla gente piace, vuol dire che è stata soddisfatta l'aspettativa. Non si pensa a migliorare il pubblico. Teatro e tv sono due cose molto diverse. Oggi si pensa che attraverso la tv si possa arrivare in teatro ma è vero il contrario. Ai miei tempi, grandi nomi come Massimo Ranieri, Gassman, Proietti, era tutta gente prestata alla tv e che poi tornava in teatro, lo stesso per me. Al di là delle liti che si vedono in tv, non si può dire che si crea una scuola: possiamo definirlo stage o laboratorio di danza, perché la scuola dura almeno 10 anni, la trasmissione invece dura pochi mesi. Ad ‘Academy' abbiamo cercato di fare questo, sedare gli animi perché per noi era teatro, dove vige una gerarchia da rispettare».

Con che criterio li sceglievate? Spesso il pubblico non capiva perché uno che sembrava il migliore venisse scartato.

«Io vedo un port de bras e dico: quello sì, quello no. In tv vedi ciò che funziona sullo schermo: è illusivo perché la danza non dovrebbe stare in tv ma in teatro».

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