NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Dal canto della terra ai… Tokio Hotel

Intervista con Israel Yinon, che all’Olimpico ha diretto l’opera di Mahler, con il quale alla si è finito a parlare di colonne sonore e di musica pop

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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INTERVISTA ISRAEL YINON

Il 4 maggio al Teatro Olimpico si è tenuta la rappresentazione de "Il canto della terra" di Gustav Mahler. Suddiviso in 6 lieder per mezzosoprano e tenore, è stato interpretato da Victoria Lyamina e Danilo Formaggia e presentato dal prof. Quirino Principe che ha partecipato alla serata in qualità di voce recitante. L'Orchestra del Teatro Olimpico è stata diretta dal Mº Israel Yinon che abbiamo incontrato per l'intervista che segue.

Il primo lied comincia in un modo molto diretto e impetuoso, come se non ci fosse un'introduzione. Ci può spiegare il significato di questa struttura e la scelta dell'autore?

Israel Yinon: «La risposta è che non lo so: rimane un mistero anche per me».

Mahler ebbe l'idea per questi lieder durante un soggiorno a Dobbiaco. Come mai scelse i versi di un poeta cinese?

«Non saprei, Dobbiaco è un bellissimo posto e l'opera è una delle più belle del ciclo dei canti. Lui dedicò questi canti alla terra. E dov'è la terra? È una domanda filosofica... il "Canto della giovinezza" è scritto molto basso e questo è un contrasto. In questa musica ci sono molti contrasti e dissonanze, non è sempre molto armonica e si potrebbe pensare che una voce bassa non sia bella. Lui crea contrasti continui nella musica e la musica spesso contrasta con il testo».

Alcuni critici dicono che Mahler abbia molto influenzato Schoenberg per quanto riguarda le sue teorie sulla musica atonale. Questi canti sono stati scritti nello stesso anno in cui Schoenberg pubblica le sue teorie. Come è possibile che ci siano state delle influenze, visto che la produzione dei due compositori era assolutamente coeva e comunque diversa?

«Mahler arrivava dalla pratica . Era un compositore ma anche direttore ed era interessato nel creare. Non era uno che faceva molta teoria, piuttosto lavorava molto con le persone. Schoenberg in questo senso, per me, era più interessato alla teoria: era più compositore che direttore, certamente dirigeva, ma non come Mahler. Al tempo stesso erano due persone diverse. Uno vede la continuità ma non vuole lasciare la tradizione: c'è un suono che ricorda i contrasti e l'atonalità come nel "Canto della bellezza", però non credo che Mahler fosse interessato nel creare un linguaggio nuovo che fosse fuori contesto. Proveniva dalla tradizione del Romanticismo e del Postromanticismo e possiamo sentire dei "viennismi" nei glissando e nei grazioso. Non era molto estremo ma a suo modo è stato ugualmente rivoluzionario».

L'opera parla del rapporto tra uomo e natura ed è stata anche coreografata da alcune compagnie di danza moderna. Secondo lei, potrebbe anche essere portata in scena con un allestimento  tipico dell'opera lirica?

«Si sente un forte linguaggio operistico nell'opera ma l'unico canto in cui mi sento davvero a mio agio nella conduzione è l'ultimo perché è molto lungo, dà il tempo di capire gli altri. È diverso da tutti gli altri perché  da solo è lungo come tutti i precedenti messi insieme e penso che sia quello in cui si potrebbe creare qualcosa di scenico. Per quanto riguarda i restanti, credo che non ci sia tempo a sufficienza. Questa potrebbe essere un'altra domanda: perché ha scritto 5 canti relativamente brevi e uno lungo come tutti gli altri e li ha messi tutti in un unico ciclo? Forse cerca di rompere la tradizione? Io amo molto questi punti di domanda che non sempre trovano risposte e credo che molto spesso le domande siano più importanti delle risposte. La forza della musica è proprio questa: molte volte rimane un grande punto interrogativo».

L'ultimo lied finisce in un modo molto malinconico. Alcuni musicisti di quel periodo sembrano vivere in bilico tra una società che fa di tutto per essere nuova e tecnologicamente avanzata e un'emotività che li mantiene ancorati alla profondità dell'animo umano. La società attuale spinge i musicisti verso qualcosa di freddo e scientifico o verso qualcosa di più profondo ed emotivamente difficile da gestire?

«Io penso che quest'idea che la società vada verso un freddo razionalismo non sia nuova. Se riesci a guidare i musicisti a fare musica con il cuore, loro si dimenticano di qualsiasi forma di freddezza. Non amo questo tipo di convinzioni, gente fredda si può trovare ovunque: io conosco bene la matematica, la fisica e la statistica e le posso garantire che queste cose non si scontrano con la musica, anzi, la musica guadagna moltissimo dall'istruzione. Una nuova generazione di musicisti sta per superarci proprio perché sono più preparati».

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