NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Critica tutti, Vitaliano Trevisan, nel suo ultimo libro “Tristissimi Giardini”

di Gianni Giolo
giolo.giovanni@tiscali.it

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Critica tutti, Vitaliano Trevisan, nel suo ultimo

Roma seconda città

Questa la logica di Trevisan, sono falsità delle televisione, stereotipi, però i veneti se li meritiamo. Così come ci meritiamo questa stampa e questa televisione che non fanno altro che amplificare e dare risonanza alle «cazzate che quotidianamente vengono sparate dai vari rappresentanti della politica locale». Trevisan non ama Vicenza, non ama Treviso, ma ama Roma che è diventata la sua "seconda città" e di cui non condivide lo slogan leghista "Roma ladrona". A Roma il nostro vicentino «si trova bene e si trovano ancora meglio proprio quelli che se ne lamentano». I luoghi comuni propri del cinema una volta rappresentavano come veneti il prete bigotto, il carabiniere sempliciotto e la servetta un po' tonta, ma ora il Veneto è diventato la patria del "piccolo imprenditore", di cui lo stesso Trevisan ha interpretato il ruolo nei suoi due film "Primo amore" di Garrone e "Riparo" di Simon Puccioni. Una promozione, un avanzamento, un innalzamento? C'è da dubitarne. Il cliché è sempre quello. Poi da Vicenza al Palladio per ribadire l'"enorme iato", di cui parlava Bandini «fra la città povera di storia e i significati simbolici che essa raffigura», la scissione tra la vita di tutti i giorni e lo sfondo scenografico che a Vicenza è immediatamente percepibile, come dire che Palladio era un gigante dell'architettura che ha costruito i suoi capolavori in una città di pigmei, giudizio sottolineato anche da Piovene che paragona i vicentini a «ospiti occasionali, senza storia, su un fondale storico», e da Goethe che osserva come «i maestosi edifici innalzati da quell'artista non siano al posto giusto rispetto alle umili e ignobili necessità della vita e come questi progetti siano quasi tutti superiori alle forze degli esecutori».

 

Vicenza come "sfondo"

Tra le sublimi architetture del Palladio e i vicentini non c'è alcun rapporto, sono palazzi dimore di dei, cui gli abitanti sono del tutto estranei. Vicenza è una piccola Roma, un'invenzione scenografica. Cosa ha a che fare il Teatro Olimpico coi vicentini? Qualsiasi cosa vi si rappresenta la cornice ruba comunque la scena. Meglio sostituire gli spettatori con dei manichini e così il problema degli spettacoli sarebbe risolto una volta per sempre. Poi la polemica con Marco Paolini che interpreta a Roma "Il sergente nella neve", «una stupida e volgare macchietta pseudo-veneta», uno "svilimento", uno "scempio" operato dall'attore nei confronti dell'opera di Mario Rigoni Stern, «libro che avrebbe meritato delicatezza, rispetto e, sì: civiltà». Sotto accusa, dice Trevisan, non solo il macchiettismo dei «veneti che vogliono fare i veneti», ma anche lo stesso modo di fare teatro di narrazione, «ormai diventato una moda e però intoccabile perché ammantato di impegno civile». Paolini, che lo aveva invitato allo spettacolo, non meritava, come ringraziamento, questo giudizio ingeneroso. Poi è la volta dell'ex sindaco Enrico Hüllweck che si vanta di aver costruito il teatro a Vicenza dopo cinquant'anni di inutili attese e chiama a inaugurarlo la mamma e tutti i vicentini caduti sotto le bombe. «Più che un teatro un gigantesco cenotafio», commenta Trevisan, anche qui esagerando nella sua critica spesso sarcastica e feroce. Poi l'affondo contro Luigi Meneghello, di cui Trevisan si vanta di non aver mai letto "Libera nos a Malo", un classico, secondo lui, che non merita questa definizione. Per Trevisan, Meneghello è un professore e «nella sua scrittura sempre si sente il professore» e a lui i professori non sono mai andati a genio, anzi non riconosce loro alcuna autorità. Altro giudizio avventato, come ha sottolineato recentemente in una conferenza su Fogazzaro, lo storico Emilio Franzina.

 

L'educazione vicentina

Segue l'inopportuna citazione del famoso detto di Benedetto Croce: «Non possiamo non dirci cristiani» in un, parlando di politica, «non possiamo non dirci democristiani». Poi l'attacco ai poeti che scrivono in dialetto, perché, il dialetto è "solo cultura orale", e infine l'utilizzo di una frase di Piovene per colpire l'educazione vicentina: «Quel groviglio di vipere, quell'intruglio di ipocrisie, di meschinità utilitarie, di piccoli cinismi, di ambizioni senza speranza, di misantropia cronica, di servilità vanitosa, di calcoli aridi sugli altri, nei quali sparisce perfino la nozione che esistono l'amicizia, la pietà, l'amore che sono le famiglie dell'aristocrazia in declino, le più simili, dietro qualche fumo di boria, alla piccola borghesia più gretta». C'è veleno per tutti. Ma Trevisan alla fine si confessa: io sono uno che ama «distruggere il mondo sulla carta».

 

nr. 45 anno XV dell'11 dicembre 2010

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