NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Più che assurdo allegorico

Così Natalino Balasso definisce la piece “Aspettando Godot” di Samuel Beckett che l’attore rodigino ha portato sul palco del teatro Comunale di Lonigo

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Aspettando Godot

Aspettando Godot (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Mercoledì sera, al Teatro Comunale di Lonigo, è andata in scena la pièce “Aspettando Godot” di Samuel Beckett, Premio Nobel per la Letteratura nel 1969. Regista e interprete è Jurij Ferrini, con Natalino Balasso, col quale ha recitato ne “I Rusteghi” di Goldoni. Molto bravi e applauditissimi anche gli altri due attori protagonisti, Michele Schiano di Cola e Angelo Tronca. Abbiamo incontrato Natalino Balasso.

 

Aspettando Godot (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Cosa accomuna la necessità di mettere in scena un testo come questo e quella di fare video di denuncia in cui si svelano tutti i meccanismi e i desideri delle persone?

Natalino Balasso: «Sono due linguaggi molto differenti: alla base di entrambi sicuramente c’è un desiderio di andare a sbugiardare dei meccanismi che sono dei riflessi condizionati. I video di denuncia hanno un linguaggio più moderno, seguono un po’ anche il modo di sentire del pubblico di adesso. Credo che con “Aspettando Godot” Beckett abbia posto uno spartiacque tra quello che era il teatro naturalistico del ‘900 e quello moderno, in qualche modo dice che quello che noi facciamo è riempire i vuoti di un’ attesa attraverso dei movimenti che a noi possono sembrare normali, ai quaIi siamo abituati definendo tutto quello che facciamo, dal nostro lavoro all’affettività e tutto il resto, come a dei meccanismi di riflessi condizionati».

Teatro surreale e dell’assurdo: sempre parlando della realtà che tu analizzi spesso, quanto c’è e cosa c’è di reale in “Aspettando Godot”?

«Io credo tutto. La visione di Jurij Ferrini è quella che più che teatro dell’assurdo è teatro allegorico. Poi in realtà è un’etichetta che è stata aggiunta da un critico qualche anno dopo che uscì questo spettacolo. Il problema delle etichette è che tendiamo a far riassumere tutto dall’etichetta: ci sono tantissime messe in scena di “Aspettando Godot”, molte sono cupe perché si parte dall’idea che è teatro dell’assurdo e che questo testo è assurdo: noi che siamo partiti dalla visione di un teatro allegorico alla fine lo mettiamo in scena senza modificare niente e la gente ride perché è una commedia».

Molti attori bravissimi sono usciti da programmi tv di intrattenimento e la gente si accorge del loro vero talento solo quando escono dalla condizione capestro del tormentone televisivo. Perché la tv ancora non riesce a rendere giustizia al talento teatrale, magari anche con un linguaggio televisivo adattato al teatro?

«Io non sono uscito da lì: facevo già teatro. C’è artista e artista, trasmissione e trasmissione,teatro e teatro. Il fatto che noi siamo una nazione televisiva e tutto transita dalla tv, ha determinato questo e succede anche in politica: se tu li metti in lista, l’ordine è quello della popolarità, della fama e quelli più famosi sono quelli che sono usciti in tv. Noi adesso abbiamo dei politici televisivi, del teatro televisivo, dei libri televisivi. Io la smetterei di dare la colpa al teatro, alla televisione, alla letteratura io comincerei a dare la colpa alla gente che non vuole scegliere, è pigra e sceglie attraverso la televisione. Il risultato culturale di tutto questo è che noi andiamo in teatro a vedere la televisione, compriamo i libri della televisione e votiamo i politici della televisione».

In una intervista hai parlato dei comici che divertono il parterre di politici parlandone come di una comicità convenzionata e non molto corrosiva. Ma la satira non è davvero centrata quando fa ridere anche il bersaglio che è disarmato e non può darti torto?

«Oggi non esiste satira, esiste un vaudeville televisivo che diverte i politici. Quando Aristofane faceva i suoi spettacoli, il tiranno di turno non si divertiva affatto e quella era satira perché era un’arma del popolo contro un potere oppressivo. Adesso il potere è qualcosa di molto più multiforme, chi identifica il potere con una persona ha sbagliato e io non credo che uno che ha avuto molto successo in televisione e quando rilascia un’intervista tutti lo ascoltano abbia meno potere di un politico».

In un periodo di crisi come questo la cultura è essenziale per tenere viva la capacità di osservazione e di analisi delle persone. Qui viviamo in un territorio in cui lo studio è spesso stato visto come una perdita di tempo e la cultura come uno spreco di denaro. Secondo te c’è una possibilità di cambiamento di visione massificata che possa portare alla valorizzazione della cultura anche come risorsa economica?

«Se cambiamo noi. La verità è che se la cultura è vista secondo il profilo borghese, come diceva Laborie, dal momento che la borghesia invidia l’aristocrazia, se io coltivo l’arte come coltivavo un campo di patate prima, non cambia niente. Io posso anche decidere di spendere soldi per l’arte e per la cultura, magari per pensare di essere più importante, posso comprare quadri di valore, magari non me ne frega niente, mi interessa solo il valore che hanno. La cultura mi sembra un’altra cosa, è più radicata tra la gente, è molto di più, è il loggionista che non può permettersi i soldi della platea però va nel loggione e conosce le opere a memoria, quella è la cultura. Questa farsa che è la prima della Scala, secondo te, è un evento culturale? È una buffonata: chi va alla prima alla scala non capisce l’opera. L’opera non è più la contemporaneità, è archeologia: prendimi tutta una platea di un teatro, chi è che va a godere perché ha capito un’intera opera dall’inizio alla fine».

Aspettando Godot (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)

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