NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Andrea Baracco e il suo tour vicentino

Il regista Andrea Baracco a tutti gli effetti è vicentino di adozione, in pochi mesi protagonista con il film “La logica delle cose”, la prossima settimana all’Olimpico con “Vita di Edoardo d’Inghilterra” tornerà poi a febbraio, stavolta al Comunale, con la sua versione di Giulio Cesare

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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“Vita di Edoardo II d’Inghilterra”

Nell’ambito del 66° Ciclo di Spettacoli Classici la teatro Olimpico di Vicenza, al ridotto del Teatro Comunale, recentemente attrezzato anche per la fruizione cinematografica, sono stati proiettati alcuni film diretti dai registi che stanno partecipando alla rassegna diretta da Eimuntas Nekrosius. Uno di questi è Andrea Baracco, regista dello spettacolo “Vita di Edoardo II d’Inghilterra” trascrizione di Brecht di un dramma di Christopher Marlowe che andrà in scena all’Olimpico l’11 e il 12 ottobre e che tornerà a febbraio al TCVI con una sua versione del Giulio Cesare di Shakespeare. Il film presentato in prima assoluta si chiama “La logica delle cose” è una prima assoluta ed è ispirato al romanzo della scrittrice iraniana K. Rahimi. Il protagonista è uno sceneggiatore e regista di grande successo che ad un certo punto ha il blocco dello scrittore. Gli viene proposto di girare un film tratto da un romanzo di una scrittrice iraniana che vede protagoniste due amiche nella Teheran degli anni ’70- ‘80. Comincia così il viaggio del regista nella vita delle due amiche. Abbiamo incontrato Andrea Baracco.

 

“Vita di Edoardo II d’Inghilterra” (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Cinema e teatro. Nell’incontro col pubblico, all’inizio, hai descritto la tua esperienza. Il linguaggio del cinema, l’occhio della telecamera, del regista e del pubblico a teatro e al cinema: come si differenziano secondo te?

Andrea Baracco: «Anche in teatro c’è un montaggio dello spettacolo di cui sei artefice soltanto tu, come regista che decidi all’interno dello spettacolo cosa mettere in primo piano. Al cinema quella cosa che è accaduta in cabina di montaggio è irreversibile in qualche maniera. Nel teatro c’è sempre un margine di operatività del regista, del lavoro della compagnia, della reazione del pubblico, negli spettacoli che abbiamo fatto in Italia o all’estero vedi una reazione profondamente diversa da una cosa all’altra».

All’estero cosa hai portato?

«Abbiamo fatto il Giulio Cesare al Globe a Londra e in Spagna al festival di Almagro, un festival di teatro barocco».

Giulio Cesare è un testo più che famoso: come è stato accolto indipendentemente dalla tua chiave di lettura? il pubblico inglese è quello più coinvolto e forse anche il più critico, immagino.

«No, paradossalmente no. La cosa bella del pubblico inglese rispetto a quello milanese o romano, è che è un pubblico vero, non di addetti ai lavori: è un pubblico che la sera alle 7 esce dal lavoro, prende il suo ombrellino e va per due ore e mezza al Globe in piedi a vedersi lo spettacolo. Reazioni molto buone ma anche di ascolto dello spettacolo nel senso da spettatore vero che accoglieva il piano del racconto così come gli veniva posto. In Spagna è andato bene; il pubblico italiano non è un pubblico unitario: nelle grandi città la cosa che sta accadendo sempre di più è che c’è un pubblico, appunto, esclusivamente fatto di addetti ai lavori, di critici, registi, attori, maestranze varie, per cui l’osservazione è sempre tecnica purtroppo, soprattutto a Roma ho notato questa cosa. È molto autoreferenziale anche ciò che si fa: spesso facciamo delle cose per noi stesi e non per il pubblico. Quindi alla fine è un cane che si morde la coda: il fatto che la gente non vada più a teatro è colpa anche di noi operatori, in qualche maniera, perché ci si accortoccia sempre più su noi stessi, ci parliamo addosso».

A febbraio porti Giulio Cesare, durante la rassegna diretta da Nekrosius porti “Vita di Edoardo II d’Inghilterra” di Brecht da Marlow e in questo film parliamo di questa ragazza iraniana che si accinge a diventare esule. Cosa ti attira di questi personaggi, testi e contesti così diversi?

«La cosa che mi attira fondamentalmente è una riflessione su quelle che possono essere le complessità delle persone e dell’uomo quando gli individui sbagliano e vedere poi cosa cambia dal momento del loro errore nella loro vita. O sbagliano o sono sbagliati o inciampano da qualche parte involontariamente e hanno un momento in cui devono ricostruire in qualche modo la loro esistenza».

È ambientato negli anni ‘80 in cui si passava da un Iran moderno a quello di Khomeini.

«Esatto, la cosa che mi interessava vedere era che tipo di conseguenze ha questo apparato storico e sociale sugli individui, fondamentalmente sulle fragilità e sule complessità degli uomini».

 



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