«Colgono l'ironia, l'umorismo, la comicità, la gestualità, l'armonia e il suono delle voci, la festosità e la tragicommedia che c'è nelle vicende. Noi De Filippo facciamo ridere raccontando tragedie e non è da tutti: questa è la nostra singolarità e all'estero la colgono».
Qualche anno fa, John Turturro realizzò una versione in inglese dell'opera scritta da suo zio Eduardo "Questi Fantasmi" intitolandola "Souls of Naples" e che, portata in scena a Napoli, suscitò molte perplessità da parte del pubblico partenopeo. Spesso i napoletani sono abbastanza restii a vedere la loro città attraverso la lente di un artista straniero: penso per esempio all'opera di arte contemporanea di Rebecca Horn a piazza Plebiscito un po' di tempo fa, ispirata al Cimitero delle Fontanelle, con i piccoli teschi di bronzo cementati sul pavimento della piazza e che provocò alcune polemiche. Lei cosa pensa di queste opere che rivisitano Napoli attraverso lo sguardo di chi è estraneo alla vostra cultura? Secondo lei chi è al di fuori riesce a cogliere qualcosa che magari a voi sfugge per abitudine oppure è vittima di una fascinazione da "turista di lusso"?
«Direi che è vittima di una fascinazione da turista di lusso: l'anima di Napoli sembra apparentemente scoperta ma è invece nascosta e riesce a manifestarsi solo a chi ha lo stesso sangue e lo stesso DNA. Gli altri la travisano».
La lettera del film "Totò, Peppino e la Malafemmina", ripresa da Benigni e Troisi come chiaro omaggio in "Non ci resta che piangere", è diventato uno standard cinematografico: ormai quando si vede un duo di attori in cui uno detta una lettera a un altro, si ha come la sensazione che ci sia un tramandarsi di questo episodio comico di generazione in generazione, fino quasi a disperdere, nei più giovani, l'originale. Perché l'episodio della lettera continua a piacere così tanto ai registi e ad essere così sfruttato?
«Perché è un momento molto divertente di cinema e comicità surreale. Non è una delle cose migliori che ha fatto mio padre o almeno non la ricordo come tale: in quella scena mi diverte molto Totò, ma mio padre non dice nemmeno una parola. Mio padre è stato grandissimo a teatro e, purtroppo, chi lo ha visto o è morto o non se lo ricorda più. Questo episodio viene ricordato perché viene mandato spesso in televisione e mio padre viene ricordato spesso per quella scenetta o per Pappagone ma quella era un'attività marginale: lui era veramente un grande quando era sul palcoscenico».
E il binomio dei fratelli Capone?
«È un binomio che sta nella simpatia della gente e che fa piacere ma da uomo di spettacolo, guardo la scena e vedo Totò divertente, perché dice delle cose assurde e comiche, o anche l'imbarazzo del vigile, ma mio padre non dice nulla».
Il duo Totò e Peppino ha contribuito a rendere celebre in tutto il mondo la commedia all'italiana. Poi, però, una volta da soli, hanno lavorato con grandi cineasti, come Pasolini e Fellini, che hanno valorizzato in modo diverso la vena surreale e onirica di questi due attori straordinari e diversissimi tra loro.
«Sì, mio padre ha lavorato con Fellini in due film: ‘Luci del Varietà' e ‘Boccaccio70', molto bello il primo, forse un po' meno il secondo ma tutte e due esperienze bellissime, anche se non è che fosse un'accoppiata molto riuscita; però fecero delle belle cose».
Qualche anno fa venne fuori la notizia che in America c'era un progetto riguardante un film su Totò e Peppino in cui F. Murray Abraham avrebbe interpretato la parte di suo padre e Al Pacino quella di Totò. Se n'è poi saputo più qualcosa?
«Io non l'ho mai saputa questa notizia di cui lei mi parla: è la prima volta che la sento».
nr. 07 anno XV del 27 febbraio 2010