NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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L'ultima onda

L'esondazione del primo novembre potrebbe essere solo un assaggio di quello che ci aspetta se non si corre ai ripari. Le alluvioni arrivano infatti con dei cicli precisi e la “centenaria” è la più pericolosa. Del “territorio malato” è già da quarant'anni che se parla, come emerge dal colloquio con Lorenzo Altissimo, direttore del centro idrico di Novoledo

di Pietro Rossi

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L'ultima onda

Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo? È il caso di scomodare i grandi quesiti esistenziali dell'uomo per parlare di un evento come l'alluvione? Se si parte dal presupposto che la responsabilità del disastro in Veneto sia dovuta in larga parte alla stessa comunità che abita quel territorio, la risposta viene da sé. Anche perché, al di là del danno economico, l'esondazione del giorno di Ognissanti ha messo sul tavolo delle contraddizioni che la regione e i suoi abitanti devono cercare di risolvere entro breve termine. Negli ultimi dieci giorni si è discusso molto di "schei" e relativamente poco di territorio. Di questo abbiamo parlato con Lorenzo Altissimo, direttore del centro idrico di Novoledo. Un esperto delle problematiche idrogeologiche del vicentino e non solo, coautore di uno dei libri più completi sul fiume Bacchiglione. Con lui abbiamo ripercorso la storia dell'acqua, che da sempre scende dalla montagna, ma anche della situazione attuale e, soprattutto, delle azioni da mettere in campo per il futuro. Il vicentino, in questo senso, dovrebbe essere uno dei maggiori protagonisti di un eventuale piano di contenimento delle acque. Le opere previste sulla pedemontana serviranno, infatti, a salvare gran parte del territorio veneto dalle prossime piene.

La più terribile è l'alluvione "centenaria". Lo dice il nome: ha un ciclo di circa un secolo. Ed infatti sono due quelle che, in epoca recente, sono rimaste impresse nella memoria. La prima risale al 1882, la seconda - forse più grave - è quella del 1966. Eventi catastrofici che hanno coinvolto Vicenza ed il Veneto si registrano però anche in tempi remoti, a cominciare da quello del 589 d.c., citato dal monaco Paolo Diacono. Per restare negli ultimi 4 secoli, possiamo trovare testimonianze delle alluvioni nel 1679 (allagamento dei quartieri bassi di Padova), nel 1781, nel 1785, nel 1816, nel 1820 nel 1823, nel 1825 e nel 1827. La causa della maggior parte di queste inondazioni fu dovuta al carico eccessivo di acqua sul Brentella, usato per secoli come dorsale di scarico del Brenta. Nell'autunno del 1882 a straripare fu invece il Bacchiglione e i suoi affluenti. La città di Vicenza fu colpita quasi interamente, così come la pianura a valle e le zone più depresse di Padova. Ma allora il peggio fu evitato grazie allo scaricamento delle acque in zone poco edificate,  soluzione impraticabile ai giorni nostri. Nel 1905 l'intero bacino andò di nuova sotto acqua, così come nel 1907. Il Bacchiglione se ne stette poi tranquillo per una ventina d'anni fino al 1926. In quell'occasione si registrano 550 metri cubi di acqua come massima portata di piena. Più o meno come l'alluvione del 2010. Ma un'efficace gestione dell'emergenza limitò l'impatto dell'acqua. Un'efficace gestione dell'emergenza. È giusto ripeterlo perché parliamo di più di 80 anni or sono. Quasi cento anni separano invece il 1882 dal 1966. Ma l'alluvione del novembre di quest'ultimo anno superò, sia come portata che come danni, quella del secolo precedente. Il sistema Bacchiglione-Brenta andò quasi completamente in tilt, allagando vaste aree del bacino. Sopra Vicenza il fiume ruppe a Cresole e Vivaro - la storia si ripete sempre - e buttò giù due ponti. In città tutti i quartieri bassi furono allagati dall'esondazione di Retrone e Bacchiglione. Tra questi Sant'Agostino, la zona dello stadio e piazza Matteotti. Fu la più grande alluvione del secolo. Dopo il 1966 il fiume Retrone uscì ancora a Vicenza, nel 1983 e nel 1993, ma senza grandi danni.

Ma torniamo al 1966. Subito dopo l'alluvione che mise in ginocchio mezza Italia, fu istituita una commissione, presieduta da Giulio De Marchi, incaricata dello studio, della sistemazione idraulica e della difesa del suolo. In Veneto il compito andò ad una sotto- commissione con a capo il professore Dino Tonini, il quale si occupò in particolar modo del Bacchiglione, sottolineando l'esigenza di creare delle aree di espansione nella pedemontana veneta. Tonini indicò pure i punti dove si sarebbe dovuto intervenire per evitare altre esondazioni. Quelle opere, inutile dirlo, non vennero mai realizzate. A quarant'anni di distanza ne è passata acqua sotto - e a volte anche sopra - i ponti e, naturalmente, la relazione di De Marchi fece in tempo a diventare obsoleta. L'urbanizzazione del Veneto si sviluppò infatti con dei ritmi vertiginosi, riducendo lo spazio per realizzare delle casse di laminazione o dei bacini. Basti pensare che dal 1950 ad oggi la superficie urbanizzata è aumentata del 342%, ovvero di dieci volte tanto (da 8.674 ettari a 28.137 ettari) e che nello scorso decennio sono state realizzate un numero di abitazioni quattro volte superiori a quelle necessarie rispetto all'incremento del numero delle famiglie.

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