NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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“Vi spiego la mia Medea”

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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“Vi spiego la mia Medea”

Medea maledice il figlio e vuole morire: per uccidesi si colpisce la pancia. Sembra che la donna che tu rappresenti affermi se stessa solo attraverso dei compiti e dei ruoli assegnatigli dalla società: matrimonio e maternità. C’è un’alternativa?

«Lei la racconta: essere liberi».

Ma questa libertà la paga con la morte.

«Sì certo. Lei a un certo punto dice che la devono smettere di dire che le donne se stanno in casa sono fuori dai pericoli: dobbiamo passare la vita a partorire; è molto meglio andare in guerra che passare la vita a morire di noia. La sua è la condizione di una donna non libera che si allontana dal suo paese per amore e poi viene addirittura ripudiata dal suo paese dove lei decide di andare per amore e non sa più dove stare. È una donna ferita per cui è chiaro che il prezzo lo paga in modo molto molto alto».

“Vi spiego la mia Medea” (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)Il corpo ha un’importanza fondamentale, la prestazione fisica è totalizzante e molto impegnativa. Anche qui vediamo dei tratti caratteristici del folklore mediterraneo: Medea sembra una tarantolata. C’è anche qui una specie di rilettura e di ricerca tua delle usanze folkloriche del Mediterraneo oppure sono segni che utilizzi come linguaggio vero e proprio perché è una necessità e fanno parte di te?

«È il mio teatro ch è così, da quando ho cominciato. Sicuramente c’è una ricerca gestuale che va avanti da anni, nel senso che come questa Medea ci sono altri spettacoli, in cui Elena è protagonista. abbiamo appena fatto “La muta di Portici” un‘opera lirica in cui lei è muta e si esprime col corpo in maniera selvaggia. Io faccio una ricerca proprio sul gesto: per me il gesto, nel mio teatro, ha la stessa importanza della parola. Nel momento in cui nasce il gesto nasce la parola, non sono separati. Per cui c’è un’esuberanza, un espressionismo, un portare il gesto all’esasperazione che racconta anche una nevrosi del mio teatro: il mio è un teatro nevrotico e schizofrenico».

La musica dei fratelli Mancuso ha molta importanza: accompagna, sottolinea i momenti più importanti e a volte ha uno spazio proprio. Loro usano anche strumenti antichi. Che tipo di indicazioni hai dato loro? Su cosa vi siete concentrati nella realizzazione dei brani?

«Questi brani sono nati 10 anni fa quando ho fatto la prima “Medea” e loro erano in scena. Sono proprio le canzoni di Medea; sono in siciliano, brani originali che hanno composto per lo spettacolo, non fanno parte del loro repertorio. Loro usano strumenti etnici che utilizzano anche nei loro concerti. Abbiamo cercato di togliere gli strumenti più moderni come la chitarra».

Quindi suoni più ancestrali.

«Si».

La parte centrale della vicenda si regge sul rapporto tra Medea e Giasone, interpretato dallo stesso attore che fa Mariarca. Lui nel suo monologo si giustifica in tutti i modi e in maniera convincente, senza possibilità di replica. Medea gli dà giustamente dell’infame. lo odia ma non può fare a meno di lui. Allo stesso modo lei esprime l’amore per il suo bambino: è figlio di Giasone ma vede il volerlo salvare come una debolezza. Qui tu utilizzi la coperta rustica: a fagotto è il bambino con la speranza di vita e amato; presa a strofinaccio la coperta diventa un cencio, il bambino che non è ancora morto ma è come se lo fosse perché è Medea che ha già deciso. Sembra quasi che la coperta sia una sorta di simbolo sia della madre che della morte ma anche della vita, di miracolo e di sciagura. É una situazione paradossale chiusa su se stessa come un oggetto impossibile: Io vedo queste dinamiche come se fossero circolari e chiuse tra di loro con delle prospettive che si oppongono. Forse questa la realtà della tragedia? Non c’è scampo?

«Sì mi piace questa cosa che dici perché è così: l’impossibilità di essere, lo spettacolo è così e Medea è così anche perché non si riesce a concluderla questa tragedia fino infondo perché lei si libera di tutto. Questa coperta è l’emblema, è un elemento disturbante perché quando non è fagotto e diventa cencio, fa male perché nel momento in cui la coperta volutamente diventa una coperta, per noi è ancora un bambino, cioè quella coperta che loro fanno cadere alla fine è un’evocazione».

È il bambino nel cassonetto.

«Si sì, esatto».

Molta della gestualità che vediamo è ripetitiva: addirittura i capelli di Medea diventano parte di una sorta di danza del parto, nascosta dietro alla coperta. Tutto questo ha una connotazione molto rituale. Secondo te, questa ritualità ha a che fare con la cultura musicale e religiosa, o comunque mistica, del Mediterraneo o si può trovare anche in altre forme o altri tipi di teatro?

«Sento che ha molto a che fare con la mia terra, poi non so se si può trovare anche in altri tipi di teatro però sento che è molto radicata e profonda, un po’ mistica, qualcosa non di cattolico ma di fede, che ti avvicina alla tua divinità e al tuo credo. Quando stai in questo teatro (Olimpico ndr) e stai seduto a vedere lo spettacolo, qualsiasi esso sia, questa scenografia ad un certo punto diventa come l’altare di una chiesa e si abbassa al livello dell’uomo. C’è un credo qui dentro, quando si fa uno spettacolo è come se ci fosse una preghiera in corso. Il mistico lo dà molto anche il luogo, il senso della tragedia, non a caso questi sono contenitori perfetti per i classici, si sposa perfettamente. Sono contenta della reazione del pubblico».

 

nr. 35 anno XVII del 13 ottobre 2012

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