NR. 43 anno XXVIII DEL 23 DICEMBRE 2023
la domenica di vicenza
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Con il trucco Solenghi invecchia di 5 secoli

di Elena De Dominicis
elenadedominicis@virgilio.it

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Con il trucco Solenghi invecchia di 5 secoli

Vediamo un’ambientazione contadina e misera. Centrale è l’utilizzo della lingua, quella del volgo e dello straniero: questo mix di veneto, il napoletano un po’storpiato eccetera. Paradossalmente la scenografia è ricchissima perché è ricolma di particolari curatissimi in ogni dettaglio, quasi una forma di barocchismo. Questa scelta estetica serve a valorizzare il medium linguistico? È molto singolare vedere una scenografia così ricca per esprimere una situazione di povertà.

Con il trucco Solenghi invecchia di 5 secoli (Art. corrente, Pag. 1, Foto generica)«È un modo ricco di mettere in scena la povertà. Io credo che ci sia, nel discorso che ha fatto Guido Fiorato che è il nostro grande scenografo, un po’ il riferimento a tutte le grandi periferie e bidonville del mondo, al mondo contadino, un po’ di degrado urbano, perché sono dei “morti di fame” e c’è anche un po’ un riferimento ai morti di fame di tutto il mondo di oggi. Quindi in questa scenografia c’è un po’ di favelas, di bidonville, di Bronx eccetera. Poi diciamo che è molto preponderante il veneto di allora, quindi poi queste differenze linguistiche il pubblico le coglie poco, il resto sono abbastanza sfumature, a parte l’esibizione canora mia in napoletano».

L’azione è portata avanti a episodi, scene chiuse che si susseguono. È un modo di rappresentare quasi cinematografico. È il racconto che permette questo tipo di struttura così moderna o sono scelte registiche?

«È la struttura del racconto. Difatti secondo me lui ha una potenza drammaturgica fenomenale, nel senso che non ti lascia un attimo per fiatare, è un montaggio modernissimo».

Dicevamo che il teatro popolare di una volta si contrapponeva al teatro colto, ricco sia nel linguaggio che nell’allestimento, celebrativo del potere. Oggi invece il divario maggiore lo vediamo tra teatro di narrazione, fruibile a un vasto pubblico, e teatro di ricerca, orientato più verso un pubblico di appassionati. Lei come immaginerebbe, oggi, un teatro illuminato, promosso dal potere, come avveniva all’epoca?

«Allora il teatro aveva una funzione politica e sociale maggiore. Oggi il teatro, spesso, è un po’ un territorio da WWF, pur essendo sempre vivo, perché in un periodo di crisi come questo i teatri si riempiono sempre e questo è un buon segno: il teatro è la nostra storia, la nostra cultura, la nostra tradizione, non lo si può emarginare. Certo, i testi hanno una loro importanza e valenza, ma non come allora. Adesso credo che il discorso del teatro classico, quello che era il teatro di corte fatto per un mecenate, è passato alla televisione: ormai chi vuole andare al potere, lo abbiamo visto in Italia, ma anche quelle di Obama e Romney, le elezioni americane sono esibizioni teatrali da musical di Broadway, con le musiche sotto e le stelle filanti. C’è sempre una matrice teatrale, ma la finalità, il prodotto è un altro».

Come molti altri attori di teatro, lei ha avuto molto successo in tv con il trio Solenghi Marchesini Lopez. indimenticabile fu la parodia de “I promessi sposi” che faceste per la Rai, che all’epoca tra il pubblico ottenne un grandissimo successo al punto che le vostre battute erano dei tormentoni tra i giovani. A rivederla oggi, si capisce come già all’epoca fosse davvero una satira spietatissima su ogni aspetto della realizzazione di una fiction qualsiasi che può essere molto pubblicizzata, ma che è scritta male, recitata altrettanto male e realizzata con errori di linguaggio filmico. Insomma, qualcosa di molto sottile, comprensibile agli addetti ai lavori. Oggi il pubblico capisce questo tipo di proposte oppure telefilm come “Boris”, che sollevano la stessa problematica, vengono seguiti per altri motivi, differenti da quelli di 20 anni fa? Come sono cambiati la satira e il pubblico che la consuma?

Con il trucco Solenghi invecchia di 5 secoli (Art. corrente, Pag. 2, Foto generica)«Noi avevamo tutto quello che hai detto e in più la parodia del classico. Boris ha la parodia del genere che è quello della fiction. Noi inserivamo la parodia dei generi, come la fiction, che aveva come finalità la parodia di un capolavoro che era di dominio pubblico: “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Era anche un po’ il modo di raccontare il capolavoro, noi ci rifacevamo molto a quelli di Bolchi, che erano molto calligrafici. Quando ad un certo punto la marchesini dice: “Che palle questo Manzoni!” era quello che pensavano tutti gli studenti a cui veniva propinato. Noi, credo, abbiamo fatto anche un po’opera di apostolato perché li abbiamo riavvicinati, magari, a un capolavoro che letto in prima battuta, uno dice: “Che rottura” e invece è un capolavoro assoluto. Noi ce ne siamo ri-innamorati leggendolo per lavorarci sopra. C’erano tante varie contaminazioni e tante frecce al nostro arco: la parodia del genere, del linguaggio, del capolavoro c’erano anche per la prima volta le guest star, per cui personaggi tolti dal loro ambiente, da Pippo Baudo a Wanna Marchi, e impegnati a fare gli attori con noi, per cui c’erano tante cose insieme».

Sarebbe possibile, oggi, rifare di nuovo la parodia di un capolavoro? Reggerebbe?

«Secondo me si. L’importante è che il testo di partenza sia posseduto dal pubblico, tipo Pinocchio, Cenerentola, l’Odissea: deve essere di dominio pubblico il testo sul quale tu fai questo tipo di intervento. Il fatto che sia un testo che fa parte delle letture obbligate dei programmi scolastici ci ha aiutati».

 

nr. 39 anno XVII del 10 novembre 2012

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